di Mariagrazia Pelaia

 

È da poco passato il venticinquennale dalla morte di Gianni Rodari, grande scrittore per l’infanzia che tanto fa discutere oggi gli adulti… un venticinquennale trascorso in un’alternanza di episodi celebrativi e amnesici.
Per i casi di oblio socio-culturale citiamo per esempio quello descritto in un articolo di Cristina Taglietti (“Il Messaggero”?, 13.04.2005; Guerra fredda per Rodari, maestro dimenticato): “Proprio domani cade l’anniversario della morte (venticinque anni) dello scrittore che ha rivoluzionato la letteratura per l’infanzia, ma a Bologna [in occasione della Fiera del Libro per ragazzi, nda] non ci sono incontri o convegni che lo ricordino. Una domanda che suscita una domanda: Rodari è ancora un maestro? Il dubbio è che la sua militanza ideologica in una sinistra che oggi ha cambiato connotati risulta in qualche modo inattuale. Non è un caso che, qualche giorno fa, ‘Il Foglio’ abbia preso di mira La storia degli uomini, un compendio degli eventi dalla preistoria alla Guerra fredda scritto da Rodari nel ’58 e ripubblicato da Gallucci. L’obiettivo era soprattutto Dario Fo, a cui l’editore ha affidato il completamento dell’opera – la parte che copre gli eventi fino ai giorni nostri – ma anche Rodari non è esente da critiche, soprattutto per le parole dedicate a Lenin, ‘un uomo che è tra i massimi geni espressi dall’umanità’ e per la descrizione idilliaca della vita sotto il socialismo. […] Uno scrittore visionario accecato dall’ideologia? […] [Secondo lo storico Luciano Canfora] ‘La sua era una visione comune anche a storici insospettabili, come Arnold Toynbee, studioso di ispirazione cattolica […] Il socialismo sembrava l’orizzonte verso cui si andava’ ”. Nell’articolo intervengono a favore di Rodari Roberto Denti (scrittore e fondatore della libreria dei ragazzi a Milano) e Orietta Fatucci (direttrice delle edizioni El). Secondo il primo l’operazione di Gallucci è stata scorretta poiché Rodari non l’aveva destinata ai bambini, bensì pubblicata in un periodico militante, e sottolinea il fatto che lo scrittore grazie alla “legge sulle 40 righe” è stato largamente saccheggiato dai testi scolastici; mentre la Fatucci nota che Rodari è un longseller, continuamente tradotto dall’estero.
Dunque, sembrerebbe che Gianni Rodari non viene proprio festeggiato come meriterebbe per il suo passato filocomunista e filosovietico (credo mai ripudiato)… dunque, per un motivo ideologico…
Ma invece ci sono episodi che dimostrano quanto è viva e attuale l’opera di Gianni Rodari nella società italiana contemporanea, e non solo: lo scrittore è stato e continua ad essere tradotto in tutto il mondo, come testimonia la mostra “Gianni Rodari nel mondo” organizzata dal Comune di Verona in collaborazione con il Centro Studi Gianni Rodari (con sede a Orvieto, presidente Tullio de Mauro e direttore Mario Di Rienzo). Nel catalogo (deliziosamente illustrato come gran parte delle opere di questo scrittore; in questo caso dalla matita di Alessandro Sanna e Vittoria Facchini) leggiamo dall’intervento di Giorgio Diamanti, Mario Di Rienzo e Anna Malgarise: “L’opera rodariana è infatti da considerarsi ormai un ‘classico’ non solo nella storia della letteratura per l’infanzia, ma anche nella cultura letteraria e pedagogica del nostro Novecento” e citando Pino Boero Un classico del Novecento (in G. Rodari, I cinque libri. Storie fantastiche, favole, filastrocche, illustrazioni di Bruno Munari, Einaudi, Torino 1995, pp. 715-728): “Banalizzato e utilizzato a brandelli dai testi scolastici, lo stesso suo messaggio rischia di appannarsi e di finire omologato fra le tante banalità della didattica… Vale la pena risentire la sua voce che senza essere prigioniera di schemi, riesce a modellarsi su quei valori di civile convivenza includibili anche per il futuro… un’immersione pedagogica di straordinaria attualità…”. Nel catalogo segue una rassegna delle autorecensioni di Rodari (“Rodari legge Rodari”) in cui lo scrittore rivela (a proposito de Il libro delle filastrocche) “con la scusa che erano ‘cose per bambini’, potevo farle come mi piacevano, potevo dire quel che avevo in mente nella maniera che più mi piaceva, potevo giocare con la fantasia” (dal catalogo della mostra, p. 8).
Proponiamo quindi qui una rilettura in chiave adulta di alcune sue opere, per capire che tipo di libertà ideologica praticava lo scrittore al riparo di fiabe e filastrocche.
Per esempio nella favola fantascientifica Il pianeta degli alberi di Natale (ill. di F. Altan, Einaudi Ragazzi, 1997; prima uscita su “Paese sera” il 24-25 dicembre 1959) è descritta una forma di governo estremamente avanzata, definibile come una specie di anarchia bislacca ma autoresponsabile ed efficace, fondata su un sistema economico che ha superato radicalmente il mercato: sul pianeta si produce e si vende tutto gratis ed è sempre Natale, cioè l’unico giorno del calendario capitalista in cui perlomeno in teoria si condivide con gli altri e si dona senza aspettarsi niente in cambio. Tematica oggi familiare a nuove forme di critica economica che considerano il concetto di sviluppo dannoso di per sé (vedi per esempio Serge Latouche, L’ossimoro dell’economia solidale, in “Prometeo” n° 87, settembre 2004).
La situazione economica del Pianeta degli alberi di natale è veramente invidiabile. “Comprò perfino una lavatrice automatica e un frigorifero, pensando di regalarli al suo ‘robot’ domestico. Tanto, lassù, niente costava un centesimo. Marco capiva finalmente perché le vetrine non avevano vetri, nemmeno quelle degli orefici, e perché nessuno sgridava i passanti che allungavano le mani per rifornirsi a volo delle cose di cui avevano bisogno.
– Ma supponiamo, – disse Marco al robot orologiaio che gli aveva venduto (gratis) un meraviglioso cronometro, – supponiamo che io ne voglia sette.
– E io glieli do. Anzi, gliene do otto.
– Supponiamo che io pretenda tutti quelli che ci sono in negozio.
– Glieli do tutti. E poi cosa se ne fa? Per vedere l’ora gliene basta uno. Sottoterra, dove abbiamo le nostre officine automatiche, una sola macchina può produrre, se vogliamo, un milione di cronometri al minuto secondo. Lei non diventa più ricco, e nessuno diventa più povero per colpa sua, anche se si riempie la casa di cronometri: anche se ne mangia una dozzina a merenda. Vuole assaggiarne uno?” (op. cit., p. 59).
Il punto chiave è la gratuità di qualunque bene e dunque un’economia basata sul dono, in cui il bambino del pianeta capitalista punta immediatamente all’accumulo, mentre il commesso del negozio del pianeta degli alberi di natale dice “Glieli do tutti. E poi cosa se ne fa?” […] “Lei non diventa più ricco, e nessuno diventa più povero per colpa sua”.
Dal punto di vista politico il sistema descritto nel Pianeta degli alberi di natale non è certo un modello di socialismo reale: “ ‘Palazzo del Governo’, lesse su una targa di marmo sbocconcellata dal tempo. E, sotto, un’altra mano aveva scritto con un pezzo di carbone ‘Che-Non-C’è’.” (op. cit., p. 73) “Un governo è davvero inutile quando le cose vanno avanti da sole” (op. cit, p. 75). Spesso le decisioni si prendono in piazza, i cittadini “decidono sempre in maniera meravigliosa” (ibidem). Sembra un paese democratico nella sua accezione assoluta, il principio dell’unanimità e della corresponsabilità paritariamente condivisa. Chiunque può essere eletto capo del governo e ministro, ma quasi tutti si dimettono velocemente perché le cose vanno tanto bene e ognuno preferisce dedicarsi ai propri hobby (la matematica, gli scacchi…) piuttosto che presenziare alle riunioni in parlamento. L’ultimo capo del governo eletto è il ragazzo incaricato di accompagnare il terrestre (che ironicamente su quel pianeta viene chiamato “sereniano”). Il fine del prelevamento forzato del ragazzo da Testaccio, popolare rione romano, è didattico: che impari gli usi e i costumi del Pianeta degli alberi di natale, dato che in futuro (come sanno gli onniscienti e saggi abitanti del Pianeta degli alberi di natale) diventerà astronauta ed è stato previsto che farà parte di una missione terrestre diretta sul loro pianeta. Dunque, un rapimento a fini benefici: difendere la pace nell’universo…
Nelle Filastrocche in cielo e in terra ne troviamo una dedicata proprio al Pianeta degli alberi di natale (ne I cinque libri, op. cit., p. 31): “Un bel Pianeta davvero/ anche se qualcuno insiste / a dire che non esiste… / Ebbene, se non esiste, esisterà: / che differenza fa?”. Un motivo utopista recidivo nell’opera di questo poeta civile, che forse oggi non definiremmo più “socialista”, ancora scarsamente individuato e compreso dal mondo della cultura adulta.
Rileggendo altre opere di Rodari ci si accorge che il motivo dell’utopia sociopolitica si accompagna a una forte istanza pacifista, in particolare ne La torta in cielo (disegni di Bruno Munari, Einaudi, Torino 1966; pubblicato a puntate sul “Corriere dei piccoli” nel 1964).
Il titolo di un capitolo è Il più bell’errore del mondo: l’errore è quello di uno scienziato che dovrebbe fare un esperimento per trasportare il fungo atomico dopo l’esplosione della bomba in altro sito per sfruttarne nuovamente il potenziale distruttivo (il fungo dirigibile), ma qualcosa va storto e il fungo velenoso si trasforma in gigantesca torta volante, facendo disperare lo scienziato rimasto al suo interno, che vorrebbe cancellare la prova del suo fallimento e preferisce passare per un oggetto volante extraterrestre.
La torta-ufo atterra al Trullo, borgata popolare di Roma, dove viene ribattezzata “pizza” (in questa città tutto quanto esce dal forno con una forma circolare è detto pizza) dai ragazzini che se la sbaferanno tutta, salvando lo scienziato dall’onta.
Il racconto dell’Emergenza Spaziale (E.S.) si conclude con la spettacolare fiumana dei ragazzi confluiti da tutta Roma a bordo di ogni mezzo (dal triciclo al monopattino al gokart del ragazzino dei Parioli), inseguiti dalle madri che travolgono il blocco delle autorità e cominciano dapprima a coprire i discoli incremati dalla testa ai piedi di ceffoni, ma poi iniziano ad assaggiare e a degustare, facendo i complimenti allo scienziato pasticcere.
E si conclude magistralmente così: “Ce ne fu un pezzetto anche per me, che arrivai per ultimo, in tempo però per farmi raccontare per filo e per segno com’erano andate le cose. E ce ne sarà per tutti, un giorno o l’altro, quando si faranno le torte al posto delle bombe”.
Il pacifismo al centro dell’opera di Rodari è stato evidenziato anche da una recente raccolta di poesie sulla pace, Promemoria, edita dalla Comunità Montana Cusio Mottarone nella collana “I libri del Parco della Fantasia Gianni Rodari”.
Ne riportiamo alcuni esempi. Armi dell’allegria: “Eccole qua / Le armi che piacciono a me: / la pistola che fa solo pum / (o bang se ha letto qualche fumetto) / ma buchi non ne fa… […] Armi dell’allegria! / Le altre per piacere, / ma buttatele tutte via.”. Il cielo è di tutti: “È mio quando lo guardo / È del vecchio, del bambino / Del re, dell’ortolano, / del poeta, dello spazzino” […] “Spiegatemi voi dunque, / in prosa od in versetti / perché il cielo è uno solo / e la terra è tutta a pezzetti”. Filastrocca del Natale: dice Babbo Natale “Signori scienziati, vi prego, inventate / le meraviglie più raffinate: / ma per favore, lasciate stare / certi giocattoli che fanno tremare… / Non vanno bene per la mia sacca / le bombe atomiche e bombe acca! / Bella è la pace, chiara la via / dite la vostra che ho detto la mia.” Filastrocca delle parole: “La più cattiva di tutta la terra / È una parola che odio: ‘la guerra’. / Per cancellarla senza pietà / Gomma abbastanza si troverà”. Il verbo ‘piantare’: Bisogna piantare molti soldati / Per far crescere un tenente. / Bisogna piantare molti tenenti / Per far nascere un generale. / Bisogna piantare molti generali / Per far crescere più niente.”. Promemoria: […] “Ci sono cose da non fare mai, / né di giorno né di notte, / né per mare né per terra: / per esempio la guerra.”
Senza dubbio l’accoglienza trionfale ricevuta da Rodari nei paesi socialisti e soprattutto in Unione Sovietica si basa su un equivoco di fondo, così come la sua simpatia ideologica per le figure e i paesi del “socialismo reale”. Le sue parole sono molto chiare, filopacifiste senza alcuna ambiguità… Questo è il messaggio universale della sua opera, che si dimostra anche di una grande ricchezza ed eleganza dal punto di vista poetico: ci si aspetta che la critica adulta riconsideri da questo punto di vista la sua intera opera, al di là dell’etichetta ideologica che gli è stata affibbiata, oltre la dimensione infantile e didattica a lui comunemente associata… È semplicemente un grande poeta.
Si veda per esempio la poesia Sulla luna (rif. bibl.): “Sulla Luna per piacere / non mandate un generale / ne farebbe una caserma / con la tromba e il caporale. // Non mandateci un banchiere / sul satellite d’argento / o lo mette in cassaforte / per mostrarlo a pagamento […]”, né tantomeno un ministro che “empirebbe di scartoffie / i lunatici crateri. // Ha da essere un poeta sulla luna ad allunare / con la testa nella Luna / lui da un pezzo ci sa stare”. Il poeta, ovvero colui che è abituato a “sperare l’impossibile”. E in un’altra filastrocca La luna bambina (Filastrocche in cielo e in terra, in I cinque libri, op. cit., p. 34-5) Gianni Rodari ci rivela a chi consegnare questa Luna dei poeti: “Il meglio da fare / è di darla ai bambini” che ci salgono a cavalcioni e “faranno il giro del cielo a caccia di meraviglie”. Rodari, innanzitutto poeta, ha trovato l’uditorio più sensibile fra i bambini, ma non solo…
Nella filastrocca Un signore maturo con un orecchio acerbo (tratta da Parole per giocare, numero monografico di “Biblioteca del Lavoro”, n° 101/102, settembre-ottobre 1979; presentazione di Tullio De Mauro e illustrazioni di Francesco Tonucci) Gianni Rodari lascia una sorta di manifesto poetico-ambientalista, che ci rivela un altro filone fertile della sua produzione: una sensibilità nei confronti della natura e degli animali che si potrebbe definire protoecologista.
Sul treno Capranica-Viterbo sale un signore anziano, che è tutto maturato, tranne un orecchio rimasto inspiegabilmente verde. Un passeggero bambino incuriosito domanda: “Signore, gli dissi dunque, lei ha una certa età, / di quell’orecchio verde che cosa se ne fa?” […] “È un orecchio bambino, mi serve per capire / le voci che i grandi non stanno mai a sentire: // ascolto quello che dicono gli alberi, gli uccelli, / le nuvole che passano, i sassi, i ruscelli, // capisco anche i bambini quando dicono cose / che a un orecchio maturo sembrano misteriose” (si deve a Francesco Tonucci e alla sua amicizia con lo scrittore l’inserimento nella raccolta di questa filastrocca dispersa nel mare magnum delle pubblicazioni in rivista di Gianni Rodari, che altrimenti oggi sarebbe potuta andar smarrita).
Nella presentazione di Tullio De Mauro leggiamo: “In un racconto di Rodari, un personaggio, il professor Grammaticus, a un certo punto trova un cartello con uno sbaglio di ortografia, tran al posto di tram, e si arrabbia molto. ‘Tanto valeva, dice con rabbia, scrivere trantran’. Un signore che passa lo consola così: ‘Certo. Il tram è pericoloso, ma il trantran è più pericoloso ancora. Il tram può spezzare una gamba, ma il trantran può uccidere il pensiero…’. Qui c’è il punto centrale della filosofia di Rodari. Attenzione, non facciamoci schiacciare dal trantran. Attenzione, non facciamoci schiacciare da chi ci dice: eh, le cose sono andate sempre così. No, le cose sono andate così perché qualcuno, noi o altre e altri prima di noi, ce le ha fatte andare così. E se sono state fatte andare così, potremmo anche provare a farle andare in altro modo”.
E questo accade in opere come il romanzo di Cipollino con personaggi tutti tratti dal mondo vegetale ad eccezione di alcuni animali parlanti: “L’unico intento del protagonista-eroe è quello di liberare il padre che si trova in prigione innocente, perché sotto il governo del principe Limone la genta perbene, i galantuomini, sono in carcere, e chi ammazza o ruba sta invece alla corte. Rodari conclude l’opera con pagine serene e luminose, che narrano la vittoria della libertà su ogni soprusa o violenza” (Gianni Rodari nel mondo, op. cit., p. 12).
Alla luce di queste parole ci accorgiamo che in tutta la sua opera Rodari è dalla parte della natura: in una delle sue ultime opere, C’era due volte il barone Lamberto (Einaudi, Torino 1978, I ed. Nuove Letture 1993) c’è un personaggio-manifesto di tale tendenza, espunto dalla narrazione vera e propria, e confluito in una postilla (la dodicesima) tutta dedicata alla sua strana figura: il ragioniere pesce. Il signor Pollaroli di Omegna (località di nascita dello scrittore, a cui resta sentimentalmente legato tutta la vita poi trascorsa fra Milano e Roma), che lavora in una ditta di elettrodomestici e dedica il suo tempo libero a un allenamento coscienzioso per trasformarsi in pesce…
“- Che genere di pesce? – domando freddamente.
– Non importa, – egli risponde, – cavedano o luccio, tinca o arborella, non tengo alle differenze specifiche. Mi basterà di diventare in generale un pesce, cioè un animale d’acqua, anzi d’acqua dolce. È lo scopo della mia vita. Impiegherò nell’impresa tutte le mie energie, il mio tempo libero, i miei risparmi, la dote di mia moglie.” […] “ mi sembra un progetto ambizioso e quanto mai degno di stima e di rispetto. Quel che mi sfugge è la sua motivazione. Ci dev’essere qualche significato ideologico che non afferro, qualche allusione politica che non penetro. Non c’entra, per caso, la “religione? Lei è, per ipotesi, affiliato a qualche setta buddista?” […] “Ciò che mi muove è puro patriottismo.
– Non vedo -, commento, dopo aver brevemente riflettuto, – che vantaggio potrebbe trarre dalla sua metamorfosi la nostra cara patria, o quale soccorso per affrontare le strette dell’attuale crisi economica [siamo nel 1979, ma lo stesso dialogo potrebbe essere pronunciato di oggi!].
– Non parlo, – precisa il ragioniere, – della patria grande, ma della mia piccola patria cusiana. Piccola, ma a me molto cara. […] non ha mai sentito dire che il Cusio è, per effetto dell’inquinamento, della moria di pesci, dell’estinzione di ogni attività biologica, ‘un lago morto’? […] io amo il Cusio. E voglio che esso viva. Per questo intendo dargli la mia vita, dopo averla convenientemente adattata al cambiamento.” (op. cit., pp. 125-6)
Nello stesso libro, oltre alla passione ecologica che si fa missione, si esprime il rammarico per il fatto che le bellezze della natura “non fanno notizia” (e lo sa bene essendo stato di professione giornalista per gran parte della sua vita): “Un giornalista inglese ha piazzato la sua tenda nei boschi sopra Ameno e di lì, ogni mattina, si gode lo spettacolo del Monte Rosa che esce dalle nuvole alla luce del sole, quando ancora tutte le altre montagne sono sepolte in una nebbia azzurrina, e le chiama, una dopo l’altra, a disporsi nel paesaggio, una dietro l’altra, una accanto all’altra, fino a riempire tutto lo spazio sotto il cielo.
Il giornalista ha descritto con entusiasmo lo spettacolo in un articolo che il suo direttore ha buttato nel cestino, dettando subito dopo un telegramma urgentissimo: ‘Lascia perdere il paesaggio, la gente non vuol sapere che cosa fa il Monte Rosa, ma che cosa fa il barone Lamberto’ ”. (op. cit., p. 55)
Duole constatare che la casa di campagna dello scrittore, a Manziana, una volta direttamente collegata a uno splendido bosco, ne è ora tagliata da una nuova strada… e le case che spuntano come funghi urbanizzano in modo sempre più spietato un territorio rimasto selvatico fino a pochi anni fa. Se lo scrittore fosse vivo non potrebbe più raggiungere a piedi il bosco che ha ispirato tante delle sue favole…
Il giardino della villetta dello scrittore ci fa pensare alla maestra Santoni (Il gioco dei quattro cantoni, in I cinque libri, op. cit., pp. 609-619) che sospetta gli alberi del suo giardino di un insolito comportamento. Dopo un’attenta veglia notturna la scoperta: “È proprio così – essa mormora -, le piante stanno giocando ai quattro cantoni. E perché no? Che ne sappiamo veramente, noi, delle piante? Ci siamo informati dei loro progetti per il futuro? E se il regno vegetale aspirasse a raggiungere il livello del regno animale?” (op. cit., p. 613).
Dopo aver sorpreso una conversazione notturna fra gatti l’intrepida maestra scopre che non solo nel suo giardino, ma in tutto il mondo naturale è in corso un gigantesco gioco dei quattro cantoni. “Ma era da immaginarselo, era quasi inevitabile. Se le piante diventano animali, agli animali non rimane che emigrare nel regno più vicino, che è poi il nostro”. […] “E noi? – si chiede trepidando la maestra Santoni. – E noi, dove andiamo? Dico noi uomini, intendendo per uomini, si capisce, anche le donne, di cui si occupano tanto poco le definizioni scientifiche…”. […] “E non si sorprende affatto, date le premesse della sua osservazione e l’ipotesi che campeggia sullo sfondo, di scoprirsi un’unghia che basta un’occhiata a descrivere e classificare, a un occhio non ignaro di mineralogia come il suo: si tratta di pura ematite ottaedrica. E l’unghia vicina, al di là di ogni dubbio, è di serpentino nobile delle Alpi piemontesi. E l’unghia dell’anulare è inequivocabilmente un diaspro rosso con quarzo ialino, mentre quella del mignolo, a prima vista, si direbbe borosilicato di alluminio” (op. cit., pp. 615-6). La maestra Santoni si sta mineralizzando, e decide allora di scrivere una lettera al ministro della Pubblica Istruzione per “tener conto, nella formulazione dei nuovi programmi scolastici, della sua straordinaria scoperta”. La natura è in rivoluzione. “Il regno animale trapassa nel vegetale, questo diventa animale, quest’ultimo si umanizza e agli uomini non rimane, come sta in effetti accadendo, che occupare il mondo delle pietre e dei cristalli. Si verifica qualcosa di paragonabile a un universale gioco dei quattro cantoni. Il cosmo rivela, con tutto il rispetto, la sua sostanza ludica” (op. cit., p. 618).
Qui il tema ecologico acquista quasi una componente trasfigurativa cosmica… anche perché, come risponde il capo di gabinetto del ministro, manca il quinto giocatore. “La maestra Santoni legge e sorride il suo ennesimo, comprensivo sorriso. In fondo già sapeva che sarebbe andata così. Anche quando insegnava ha scritto tante volte al ministro per dargli buoni consigli, ma non è mai stata veramente ascoltata. Non si faceva illusioni. Non se ne fa ora, mentre assiste inosservata alla danza dei suoi cinque alberi; ai giochi che si svolgono nell’orto, dove una mattina le verdure, nei loro precisi rettangoli, si dispongono a formare disegni geometrici, figurine di animali sconosciuti, lettere di alfabeti misteriosi; alle conversazioni notturne dei gatti e dei cani del vicinato; alla fioritura dei muri della sua stessa casa, sul cui tetto è sbocciato, direttamente dalle tegole, un bellissimo tulipano nero; alla lenta ma continua metamorfosi del suo stesso corpo, che sarebbe ormai la fortuna di un museo scolastico di mineralogia” (op. cit., pp. 618-9). E anche lei si chiede chi sia il quinto giocatore. “Il buon Dio? I marziani? Una forma di vita sconosciuta alla biologia terrestre? Esseri di pura energia? L’antimateria?” (p. 619).
In questo crescendo di meditazione ormai chiaramente mistica con l’occhio di oggi notiamo che Gianni Rodari ha prefigurato un fenomeno alquanto chiacchierato negli ultimi tempi: quello dei cerchi nel grano… impostura new-age o messaggi di Gaia? Chi lo sa, tuttavia lo scrittore è stato anche in questo anticipatore.
Forse le piante si accontenterebbero del rispetto del mondo umano… e dell’incantata ammirazione di esseri come Gianni Rodari, che attraverso il personaggio della maestra Santoni e del buffo professore di etologia comparata pluridimensionale ci dimostra raffinate conoscenze del mondo minerale e vegetale.
“Mia moglie e io ci trasferimmo in Svizzera, dove l’Università aveva affittato per noi uno chalet tra le montagne. Non le ho detto che i miei studi sono stati finanziati fin dall’inizio, e lo sono tuttora, dall’illustre Ateneo? L’amministrazione aveva fatto acquistare per noi anche due eccellenti sedie a sdraio che piazzammo all’ombra, ma al riparo della tramontana, davanti a due splendidi esemplari di abete bianco, alti intorno ai quaranta metri e tre centimetri, dal tronco debitamente rivestito da una corteccia cenerognola e screpolata. I rami erano quasi orizzontali e verticillati. I ramoscelli, ternati. Le foglie apparivano piane, un po’ ristrette alla base, non so se mi spiego, ottuse all’apice (senza offesa s’intende) e presentavano nella pagina inferiore due linee bianche prominenti, situate ai due lati della nervatura. Il frutto era, secondo le nostre prolungate osservazioni (birra fresca aiutando), una pina eretta, cilindrico-bislunga, lunga una quindicina di centimetri di giorno (di notte non l’abbiamo mai osservata, purtroppo), a squame caduche e con semi trigoni alati. Capisce? Alati! Una meraviglia” (da “Una vita per l’etologia”: I quattro cantoni, in I cinque libri, op. cit., p. 580).
Questo è un brano di alto virtuosismo fiabesco-botanico, un misto di sapienza tecnica e di empatia verbale con l’albero attraverso gli incisi un po’ buffi e molto umani.
Da associare a brani che parlano di una grande competenza territoriale del nostro, una conoscenza del luogo simile a quella auspicata dal bioregionalismo (movimento che applica nella pratica quotidiana i principi dell’ecologia profonda), che invita tutti a ridiventare abitanti del proprio posto, cominciando con la compilazione personale di una mappa locale con vegetazione, animali, geologia e storie del posto (vere e leggendarie). Tale sapere Rodari lo sfoggia in modo scherzoso, nella passeggiata non proprio spontanea di un segretario comunale con un tombarolo. “Basterebbe che io parlassi di faggi anziché di cerri o di castagni, che nominassi la robinia anziché il tiglio, il ligustro anziché il lentisco, la ginestra anziché il sambuco, e subito qualcuno, nel triangolo Cerveteri-Tuscania-Viterbo sarebbe in grado di individuare una località precisa: ‘Ah, ecco, sono passati dal canale del Curato’. Anche sulla composizione del terreno sarà meglio mantenersi nel vago: è ben vero che nella provincia abbondano le rocce vulcaniche, che i basalti leucitici rappresentano uno dei tipi petrografici più diffusi, che il tufo, il peperino, la pozzolana sono presenti un po’ dappertutto. Ma un buon tombarolo non ha bisogno di notizie esplicite, gli basta una semplice successione di indizi, ed eccolo esclamare: ‘Ah, bene sono passati dalla Caldara di Manziana’, oppure: ‘Un momento, qui stavano dalle parti di Vetralla’. Parlare di Pian del Vescovo o di Grotta Porcina, di rio Canale o di Poggio Falco, ma anche della Cerchiara o della Rota, sarebbe come firmare una confessione in Questura” (“L’affare del secolo”: I quattro cantoni, in I cinque libri, op. cit., p. 623)
La confessione che Rodari firma per il lettore qui è quella di una profonda conoscenza e amore per i luoghi circostanti (la residenza di Manziana è la sua seconda casa, dove si rifugia quando gli impegni lavorativi al giornale glielo consentono): un certo bioregionalismo consapevole o meno nel sangue…
Queste parti dell’opera di Rodari potrebbero essere il tentativo di dare una risposta positiva all’interrogativo che si pone Walter Giuliano, a chiusura di un articolo sugli anniversari concomitanti di Lipu, Italia Nostra e Legambiente (singolare coincidenza celebrativa con quella di Gianni Rodari) (Alle origini del movimento ambientalista, in “Parchi”, n° 45, 2005): “Nonostante le centinaia di migliaia di soci, e una storia ormai lunga, il movimento ambientalista non sembra in grado di incidere più di tanto né sui comportamenti individuali, né sulle scelte della politica. C’è da domandarsi seriamente il perché. Come ci si deve interrogare sulla scarsa incidenza dei temi ambientali – oggi universalmente riconosciuti come fondamentali, urgenti e indifferibili – nei programmi dei partiti e delle coalizioni che si presentano alle competizioni elettorali. Nessuna speranza dunque di arrestare la folle corsa verso l’ecocatastrofe?”.
Al pessimistico consuntivo di Walter Giuliano possiamo accostare, seppure in ambito differente (letterario), il mancato riconoscimento del filone ecologista nell’opera di Gianni Rodari. I due fenomeni potrebbero essere correlati? La disattenzione del tema ecologico-ambientale nella società (oltre le formali dichiarazioni) trova corrispondenza nella disattenzione del pubblico e della critica nei confronti del livello ecologista dell’opera rodariana (che in tale ambito può persino essere considerata, dati i tempi, pionieristica).
La meraviglia di Rodari nei confronti dell’ambiente comprende anche le sue creature, gli animali, a cui dedica pagine mirabili in poesia e in prosa, andando oltre le normali convenzioni favolistiche.
Non abbiamo a che fare con i soliti animali antropomorfizzati, ma di un vero e proprio tentativo dello scrittore di immergersi ed esplorare un mondo alieno, e a volte di spostare la focalizzazione narrativa a favore del punto di vista animale e vegetale. Le mucche di Vipiteno (I quattro cantoni, in I cinque libri, op. cit., pp. 563-568) sanno il fatto loro, anche se non cercano assolutamente di comunicarlo agli esseri umani… “Una mucca di Vipiteno aveva mangiato l’arcobaleno. Di solito le mucche mangiano erba, fieno, cose così. Ma quel che non succede in mille anni può succedere una sera, all’ora del tramonto, dopo un furioso temporale, mentre un gruppo di turisti tedeschi sta ammirando l’arcobaleno che si accampa in cielo, da una montagna all’altra, e una mucca sta brucando per i fatti suoi, senza pensare al domani, perché le mucche stanno con tutte e quattro le zampe nel presente”. La mucca Vah! comincia a produrre latte e feci color arcobaleno, il veterinario sospetta disturbi digestivi di scambio fra la sintesi e l’analisi paragonabili al movimento pittorico dei divisionisti. Il contagio si diffonde tra le mucche, i turisti si lamentano degli arcobaleni sabotati, i manti delle bestie si fanno iridati… Finché le mucche risolvono tutto da sole, sputando quando gliene viene voglia gli arcobaleni dopo il temporale, e così tornano alla normalità, al loro bianco e nero. Sempre in I quattro cantoni c’è il racconto del giovane innamorato di una gallina faraona… (Un amore a Verona) e poi l’intervista al professor Bergman dell’università di Uppsala (Una vita per l’etologia): “[…] Da dove vuole che cominci?
– Dal principio, professore.
– Il principio va collocato verso l’anno 1957. Avevo allora tredici anni e un’autentica passione per i gatti. Mi capitò in quel periodo di leggere in un giornale che esisteva, fra le tante altre, anche la professione di etologo, ovverossia di studioso dei costumi e delle usanze degli animali. Decisi che da grande avrei fatto l’etologo e che avrei studiato il comportamento dei gatti.
– E tenne fede a quel proposito?
– Sicuramente. Laureatomi all’Università di Uppsala, nella quale sono oggi docente di etologia comparata pluridimensionale…
– In che senso pluridimensionale?
– Come dice la parola stessa, in molti sensi. Subito dopo i festeggiamenti per la laurea intrapresi lo studio di quei piccoli, graziosi, eleganti felini, già venerati nell’antichità. Lo sa che il profeta Maometto, piuttosto di svegliare il gatto che si era addormentato sul suo prezioso mantello, preferì tagliarne un lembo?” (op. cit., p. 579).
Anche per Rodari il gatto è un animale particolarmente caro, nella sua opera si rivela presenza costante a cui è dedicata persino una saga (Gli affari del signor gatto) e numerose liriche come Buon anno ai gatti (“Ho conosciuto un tale / di Voghera o di Scanno, / che voleva fare ai gatti / gli auguri di Capodanno” […] “La gente si stupiva / e borbottava alquanto: / – Ma dia il Buon anno a noi! / che le diremo: Altrettanto! – // No, quel bravo signore / di Novara o di Patti / si ostinava: – Niente affatto, / lo voglio dare ai gatti. // Voglio andare con pazienza / da Siracusa a Belluno / per fare gli auguri a quelli / cui non li fa nessuno” (Le filastrocche del cavallo parlante, in Filastrocche in cielo e in terra, I cinque libri, op. cit., p. 189). E la cosa forse meraviglia di meno se raccontiamo un episodio della sua vita familiare: suo padre aveva lo stesso amore e rispetto per gli animali, tanto che uscendo una rigida notte di inverno per salvare un micetto rimasto impigliato in un tombino, si prese la polmonite e dopo pochi giorni morì.
Nell’opera di Rodari non manca un riferimento all’età dell’oro in forma di favola, con una frecciatina ironica alla mania umana di “ingabbiare” gli animali, privandoli della loro dignità e libertà, una mania “zooillogica”. Leggiamo ne Il pianeta degli alberi di natale: “La giornata trascorse rapida e piena, tra una corsa al ristorante e una visita al giardino ‘zooillogico’, così battezzato da Marco, perché leoni e tigri passeggiavano tra la gente, e coccodrilli giocavano con cigni e bambini nelle acque limpide di un lago. Di gabbie, nemmeno l’ombra” (op. cit., p. 71).
La sensibilità ecologista di Gianni Rodari è stata di recente recepita in un programma di educazione ambientale del parco naturale regionale dei Monti Lucretili (prov. di Roma e Rieti), nell’ambito del quale Stefano Panzarasa (tecnico del parco, geologo e musicista) e Roberto Pietrosanti (guardiaparco) hanno ideato uno spettacolo musicale basato sulle filastrocche di Rodari (il coro Orecchio verde), in particolare quella che è diventata un inno cantato da centinaia di bambini delle scuole dei comuni del parco: Un signore maturo con un orecchio acerbo. Attendiamo ora un critico “con l’orecchio verde” che esplori questa dimensione inedita poco frequentata dell’opera di uno scrittore compromesso da un’infelice (ma storicamente giustificata) presa di posizione ideologica. Un errore perdonabile, in fondo. Per dirla con le stesse parole di Rodari, che di errori se ne intendeva (tratte appunto da Il libro degli errori), “Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo? Se si mettessero insieme le lagrime versate nei cinque continenti per colpa dell’ortografia, si otterrebbe una cascata da sfruttare per la produzione dell’energia elettrica. Ma io trovo che sarebbe un’energia troppo costosa. Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio, la torre di Pisa” (dal catalogo della mostra “Gianni Rodari nel mondo”, op. cit., p. 20).
Anche l’opera di Rodari, fosse pure frutto di errore ideologico, è bella. Nel senso doppiamente etico ed estetico del termine.

 

Il presente articolo è stato Pubblicato sulla rivista “Prometeo”, n 94/2006 e in seguito sul libro “L’orecchio verde di Gianni Rodari, Stampa Alternativa 2011.